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Inquadramento territoriale

 

Nel cuore della Calabria, tra Sila e Aspromonte, si trovano le Serre. Mongiana, a poca distanza da Serra San Bruno, Fabrizia e Nardodipace, costituisce, insieme a quest’ultime cittadine, seppur con le differenze dovute alla dimensione degli abitati, il centro delle Serre calabresi.

Per la sua posizione, Mongiana, ma anche Nardodipace e Fabrizia, gravita sul versante ionico; Serra San Bruno su quello  tirrenico. Tutte le cittadine rientrano nei confini amministrativi della provincia di Vibo Valentia. Ci troviamo, quindi, sul lato orientale delle Serre, lungo le gole fluviali dell’Allaro, che scorre verso la costa, gettandosi  nel mar Jonio nei pressi di Caulonia.

L’erosione, con il suo lavoro secolare, ha creato una sorta di strada delle acque che, scorrendo e incuneandosi tra le pareti rocciose, dà vita ad angoli suggestivi  con la presenza di cascate, pozze dove ristagnano placide acque, e luoghi incontaminati con fitta vegetazione.

Nonostante i tratti e le aree impervie, la laboriosità dell’uomo è riuscita a strappare alla natura piccoli terrazzamenti, chiamati rasule, sorretti dalle cosiddette armacere, muretti a secco di pietre sapientemente incastrati. L’area di Mongiana e il territorio limitrofo, nel periodo magno greco, VII-IV sec. a.C., facevano, presumibilmente, parte integrante della chora della colonia greca di Kaulon, posta lungo la costa ionica nei pressi di Monasterace marina.

Ancor prima, in epoca preistorica e protostorica, popolazioni attratte da un ambiente ricco di risorse naturali, hanno popolato queste contrade. Lo dimostrano le ricerche nel territorio, seppur non complete, intraprese negli ultimi anni, al fine di colmare la lacuna esistente tra le indagini nei centri antichi costieri e i luoghi posti più all’interno. 

Plinio il Vecchio, scrittore di epoca romana, identifica con il nome Sila, le foreste calabresi che vanno dall’istmo di S. Eufemia fino allo stretto di Messina, includendo, quindi, anche le Serre.

Lo sfruttamento delle foreste, in quell’epoca, era addirittura sotto il diretto controllo dello Stato che dava in appalto a società specializzate la raccolta della resina usata per la produzione della  pece.

Questa era molto apprezzata per le qualità terapeutiche in medicina, ma anche per le applicazioni nella cantieristica navale e per l’uso che se ne faceva in relazione alla impermeabilizzazione di contenitori  per la conservazione di prodotti alimentari. Ma non solo. Le foreste venivano ampiamente sfruttate per la produzione del legname che era impiegato non solo localmente, ma, imbarcato ed esportato, presumibilmente, sia dalla costa ionica che tirrenica. Un’epistola di papa Gregorio Magno, del 599 d.C., ricorda come con il legname delle foreste calabresi siano state ricavate le travi per la costruzione delle chiese di S.Pietro e di S.Paolo a Roma.
 
Cenni storici

Il borgo di Mongiana (VV) è posto a circa 1000 m di altezza s.l.m., sul colle Cima, alle falde del monte Pecoraro, nell’alto bacino del  fiume Allaro, sul versante ionico delle Serre calabresi. Con lo sguardo abbraccia un ampio territorio, occupando una posizione strategica di primo piano.

La cittadina inizia a prender forma nel 1768, quando vengono costruite le prime case per ospitare gli operai impiegati nelle ferriere. Il suo sviluppo urbanistico, a differenza di altre realtà contemporanee, non è frutto di progettazione organica. Questa soluzione ha evitato di rendere l’abitato un’appendice esclusiva delle fabbriche.

Così, dopo la chiusura di quest’ultime, il paese ha continuato a sopravvivere grazie allo stretto legame che Mongiana ha conservato con l’ambiente circostante. Lungo l’attuale via SS 501/Corso Vittorio Emauele III, sono ancora oggi riconoscibili, seppur ristrutturate e modificate, quelle che  erano le abitazioni degli operai.

La cellula abitativa tipo prevedeva al piano terra una stanza che fungeva da cucina; una scala che si raccordava con il piano superiore adibito a stanze da letto, mentre la legnaia, alla quale si accedeva tramite una botola inserita nel pavimento, si trovava sotto la cucina. Insieme alle abitazioni più popolari, sono presenti, nel piccolo centro, fabbricati di più ampio respiro architettonico, come ad esempio la casa del Comandante, la Caserma, o il palazzo Morabito che mettono in evidenza la parte nobile del tessuto urbanistico del borgo, sviluppatosi in maniera spontanea. 

Circondata da fitti boschi e aree naturalistiche di grande pregio, Mongiana, è oggi conosciuta  come la sede dell’ultima industria siderurgica della Calabria. Per molto tempo, tra vicissitudini varie, il piccolo centro, nato e cresciuto intorno all’industria, è stato il nucleo della produzione del ferro, di manufatti e armi per lo Stato. Qui furono costruite le rotaie per la prima ferrovia italiana (seconda in Europa), la famosa “Napoli-Portici”, e tutte le rotaie della linea ferroviaria che raggiungeva Bologna. Il famoso fucile da fanteria, denominato “Mongiana”, fu realizzato proprio in queste fabbriche.

Nel 1811, sotto il governo dei Francesi, il piccolo centro viene elevato al rango di comune, affiancato a quello  di Fabrizia, con il nome di Fabrizia-Mongiana. Con il ritorno dei Borbone al governo del Regno, Mongiana diviene frazione di Fabrizia, per poi conquistare l’autonomia  solamente  nel 1853 con Decreto Regio del 06 dicembre 1852.

Il piccolo polo industriale, nel corso dei decenni, si sviluppò e fornì manufatti e ghisa anche alle altre industrie del Regno, ma con l’unità d’Italia subì un tracollo. Il governo unitario inizia, infatti, una metodica opera di smantellamento dell’industria siderurgica calabrese, gestendo con personale proprio gli opifici ma, di fatto, facendo mancare le commesse pubbliche, cedendola ai privati, vendendola, infine, ad un’asta pubblica.

Una volta all’asta, il complesso (fonderie, ferriere, miniere e boschi) venne acquistato da Achille Fazzari, garibaldino, amico di Giuseppe Garibaldi e senatore del Regno.

A lui e alla sua gestione viene imputato il declino e la relativa  chiusura delle ferriere di Mongiana, primaria e importante attività industriale che aveva caratterizzato per secoli il comprensorio delle Serre. Nella realtà, egli tentò di mantenere in vita gli opifici per offrire un’alternativa alle popolazioni locali, che, per le scelte del governo unitario, avevano perso il lavoro.

La politica del nuovo governo costrinse Fazzari, dopo un decennio, a chiudere gli impianti. Si fermò l’attività estrattiva e di fusione, mentre lo sfruttamento delle risorse forestali continuò. Iniziò da questa dismissione l’esodo delle popolazioni locali, l’emigrazione massiccia, verso altre aree geografiche d’Italia e all’estero, portando con sé, e applicando in altre realtà analoghe, polo siderurgico di Terni ad esempio, la professionalità e le conoscenze tecniche  acquisite nelle industrie di Mongiana.    
 
Attività estrattiva
L’attività estrattiva e quella metallurgica erano, in antico, strettamente connesse, al punto che venivano usati i termini metalleús - metallicus per indicare il lavoratore addetto sia all’una che all’altra attività. Problema fondamentale e concreto dell’Italia antica, l’attività mineraria costituiva una voce importante nell’economia di alcune popolazioni come ad esempio gli Etruschi, che erano famosi proprio per la maestria nell’arte metallurgica, approdata in occidente, proveniente  dal bacino orientale del Mediterraneo. 

I metalli, pertanto, hanno avuto un ruolo rilevante nello sviluppo delle civiltà; e la recente attenzione nei confronti dell’archeologia mineraria, ha prodotto, anche nella nostra regione, la Calabria, considerata a torto povera di metalli naturali, una serie di studi (stimolati, anche  grazie alle ricerche sul terreno) che, integrati con i dati archivistici, permettono di mettere insieme informazioni particolarmente interessanti  per la lettura di questo fenomeno, altrimenti poco conosciuto. 

E ancora, in relazione alla nostra regione, Omero, sommo poeta greco, nell’Odissea,  ai versi 182-184, recita “Or ora approdai, con nave e compagni, andando sul mare schiumoso verso genti straniere, verso Temése per bronzo, e porto ferro lucente”. Questo passo, pur nella sua spiegazione controversa, farebbe intendere che esistessero rapporti di scambio, di ferro con bronzo, tra gli abitanti locali e marinai provenienti da altre terre.

I dati più interessanti, nel territorio calabrese, provengono appunto da scavi e da prospezioni archeologici di superficie. In riferimento all’area che secoli dopo sarà occupata dalle Ferriere impiantate dalla Real casa Borbonica, siamo in possesso di informazioni relative alla conoscenza e allo sfruttamento della materia prima per l’estrazione e la lavorazione del ferro presente in questa zona.

Le prime notizie, in tempi non sospetti, in qualche modo collegabili alla lavorazione dei metalli, provengono dagli scavi dell’archeologo Paolo Orsi che, agli inizi del secolo scorso, durante gli scavi dell’antica Kaulon, attuale Monasterace Marina, sulla costa ionica, scoprì i resti di un ambiente da lui interpretato come un’officina, un atelier, per la trasformazione e lavorazione dei metalli, grazie alla presenza di punte di frecce e lance. Recentemente, dall’abitato di epoca ellenistica, sono state documentate numerose scorie riconducibili ai processi di trasformazione del metallo ferroso. 

Infatti, nella località S. Marco di Monasterace Marina, sono stati recuperati materiali che indicano che il ferro veniva lavorato  in questa area a partire dal V sec. a.C., fino al IV-V d.C. ma, scorie di ferro e scarti della lavorazione del minerale sono stati documentati  anche in altri punti della città antica.

I Greci, durante le prospezioni lungo la costa, erano sicuramente venuti a conoscenza della presenza di risorse di tipo minerario nella zona, alle quali erano probabilmente molto interessati, forse  ancor più che a quelle di tipo agricolo. Nel mondo antico, la vocazione di un sito all’insediamento di un determinato luogo, consisteva nella capacità del territorio circostante di offrire risorse naturali tali da essere sfruttate nelle varie forme di produzione, da articolare variamente.

La produzione del ferro pare derivi dalla metallurgia del rame. I primi reperti in ferro da minerale ovvero non di origine meteoritica, risalgono al 1800 a.C., e sono stati rinvenuti in Anatolia. In ambito etrusco, sono state sviluppate vaste ricerche e analisi che possono essere prese in considerazione al fine di comprendere come era organizzata la lavorazione del ferro, a partire dall’estrazione fino al prodotto finito. Dai giacimenti, quindi, venivano estratti ematite, magnetite, limonite, goethite oppure  siderite.

Plinio il Vecchio ( Nat.  Hist. XXXIII, 21, 70) descrive le  miniere d’oro sfruttate nell’antichità e riferisce circa le condizioni di lavoro dei minatori che possono essere assimilate a quelle di lavoratori impegnati in altre miniere.

Dal punto di vista iconografico, il famoso pinax di Pentaskoufi illustra l’attività di tre minatori intenti nello scavo in miniera; seppur problematico dal punto di vista interpretativo, si nota bene, nella scena, un primo personaggio intento nello scavo, mentre altri due raccolgono e portano all’esterno il minerale.

Il materiale veniva lavorato successivamente, posto nel forno,  che poteva essere realizzato a pozzo, costruito con pietre per un’altezza di m. 1,50 e un diametro di 50 cm circa. La carica del forno era rappresentata dal minerale arrostito e da carbone di legna in eguale quantità. Ma, costituiva sempre un problema, per l’elevata quantità di carbone necessaria nella lavorazione e trasformazione.
Il ferro grezzo, dopo essere estratto dal forno, veniva martellato al fine di purificarlo dalle scorie e ottenere forme consone al trasporto. Infatti, quanto veniva prelevato  dal forno non era metallo fuso, ma  una massa dalla struttura spugnosa detta blumo, che andava riscaldata ancora e martellata ripetutamente.

Successivamente, la massa subiva ulteriori processi di martellatura e riscaldamento sulla forgia, lavorando ad altissime temperature; per questo motivo, furono creati strumenti appositi come lunghe molle e pesanti mazze.

Nell’età del Ferro, in Europa, la forma più utilizzata per il trasporto era quella dei masselli bipiramidali. In epoca romana, Plinio il Vecchio, nella sua opera Naturalis historia, dopo aver descritto l’Italia sulla base della divisione amministrativa di Augusto, ne mette in evidenza la straordinaria ricchezza, dal punto di vista delle risorse minerarie.

Purtroppo non offre notizie più precise, in quanto, ai suoi tempi, l’attività estrattiva nel territorio della penisola italiana era vietata per legge. Ma, l’Elba, essendo un’isola, forse era stata esentata dal divieto; di fatto, pur non conoscendo l’epoca e il periodo preciso, il senato romano aveva emanato un decreto che impediva di praticare l’attività mineraria.

Non si conoscono esattamente i termini e i motivi di tate divieto; forse erano dovuti alla carenza di filoni estrattivi, oppure al calo della manodopera oppure alla corruzione dei senatori romani che volevano avvantaggiare gli appaltatori delle miniere iberiche, o, infine, al tentativo di eliminare dal territorio italico, focolai di insurrezioni servili quali  potevano essere gli ambienti minerari, dove il grosso del lavoro veniva svolto da schiavi.