Tecniche di produzione
I boschi. La selezione e l’abbattimento degli alberi
La risorsa necessaria per il funzionamento degli altiforni delle Ferriere era il carbone vegetale che veniva prodotto dalla legna ricavata dal taglio dei boschi. Si preferiva il legno di faggio perché più adatto a produrre il carbone da utilizzare per la fusione del minerale negli altoforni e nelle ferriere.
Per il taglio si usava la sola scure. La seziona annuale di alberi da recidere era comunque un’operazione complessa e normata, il tutto avveniva con cerimonia ufficiale.
La decisione spettava all’Agente Selvano Demaniale di stanza a Mongiana su indicazione del capitano al Dettaglio e previo parere favorevole della Direzione, mentre la selezione era tracciata dalle guardie forestali che agli ordini di un Caporale si recavano sul posto in armi e divisa Borbonica ufficiale.
Le guardie forestali erano divise in tre squadre, ognuna formata da 7 uomini, una per Stilo, una per Mongiana e l’altra per Serra (si tratta dei primi del genere visti in azione in Italia).
Le guardie giunte nei boschi marcavano gli alberi destinati alla carbonizzazione con un bollo: l’albero veniva scortecciato sulla base con un colpo di accetta è si incideva il bollo con un martello-punzone che lasciava sul legno vivo la lettera M di Mongiana, sugli alberi perimetrali della sezione da recidere s’imprimeva con un secondo colpo la lettera SC (Sicilia Citeriore).
Le due lettere erano impresse anche su 15 alberi a moggio lasciati intatti per fornire al terreno i così detti “semi di speranza”.
I martelli erano di proprietà del governo e venivano conservati in astucci a due chiavi: una custodita dal Direttore e l’altra dal caporale delle guardie.
Il bollo era apposto con cerimonia ufficiale: ogni albero era numerato e annotato nel verbale e il numero era riprodotto poi con vernice a fianco del punzone martellato sulla pianta.
Si iniziava a redigere il verbale all’atto del prelievo dei punzoni, firmato dal caporale e controfirmato dalla guardia che prendeva in consegna il martello.
L’albero bollato poteva essere tagliato solo durante la stagione del “sugo fermo”, cioè da metà autunno a fine inverno, invece i pini e abeti potevano essere abbattuti in ogni periodo perché non adatti alla carbonizzazione e usati dalle segherie per altre necessità.
Il capo carboniere assegnava il settore di competenza ai taglialegna della sua squadra, ogni taglialegna era responsabile della sua area e il taglio era effettuato a colpi di scure, il tronco veniva tagliato a circa mezzo metro d’altezza evitando di estirpare le radici e le ceppaie per permettere ai boschi di riprodursi spontaneamente. Ad albero abbattuto intervenivano i bovari dello stabilimento che facevano trascinare il tronco dagli animali.
Il tronco veniva mondato dai rami per poi essere suddiviso in monconi lunghi circa 80 centimetri detti “tropelli”. Infine i “tropelli” erano fatti rotolare fino alle carboniere dove, a colpi di cuneo e accetta, erano ridotti in pezzi ancora più piccoli adatti alla carbonizzazione.
Il metodo di carbonizzazione
La tecnica di carbonizzazione era e continua a essere caratterizzata da un sistema tramandato nei secoli.
L’intera procedura era affidata a un capo carboniere che si avvaleva dei carbonai alle sue dipendenze, a lui era affidato il compito di ergere le pire e su di lui ricadevano la responsabilità della buona riuscita del carbone e il suo trasporto.
Il periodo ideale alla carbonizzazione era compreso tra l’inizio della primavera e la caduta delle prime nevi così, scelto uno spiazzo di terreno argilloso si piantava un palo centrale che delimitava la circonferenza su cui alzare la pira (detta anche carbonaia), in genere di piccole dimensioni con 4 metri di diametro.
A questo punto si stendeva uno strato di terreno vegetale e su questo manto, in corrispondenza di opportuni camini interni, erano praticati fori di sfiato, quindi attraverso il canale d’accensione si dava fuoco alla pira.
Il processo di semi combustione durava dai 6 o 7 giorni, di seguito si provvedeva a otturare le prese d’aria necessarie per la combustione e si bloccavano gli sfiatatoi per interrompere il processo.
Trascorsi due giorni si asportava lo strato di terriccio superficiale e si smontava il cumulo, procedura che si eseguiva in genere la notte per consentire di distinguere la presenza di fuoco residuo di raffreddamento.
I qui tempi il carbone veniva trasportato negli stabilimenti di Mongiana e Ferdinandea a schiena di mulo sistemato in appositi sacchi di canapa dove, per evitare possibili incendi, venivano lasciati all’aperto per oltre 24 ore prima.
Infine la quantità di carbone veniva conteggiata da un sottufficiale e quindi versato nei magazzini.
Funzionamento del sistema di coltivazione nelle gallerie
I minerali di ferro che si fondevano nelle ferriere di Mongiana e Ferdinandea provenivano esclusivamente dal bacino minerario di Pazzano, dalle gallerie Immacolata, Lucarello e Scolo site lungo il dorsale del Monte Stella.
La galleria Scolo era munita di binari su cui scorrevano i carrelli trasportatori, mentre nelle altre due miniere, il minerale era trasportato a spalla con gerle o su carriole. L’areazione era assicurata dal pozzi di aereazione in quanto le gallerie si addentravano a una profondità variabile tra il 400 e 1.000 metri. L’illuminazione era fornita da rudimentali lampade a olio.
L’operazione di scavo proseguiva tutto l’anno con orario di lavoro di otto ore (un traguardo raggiunto dai minatori europei solo nella seconda metà del secolo XX). Incontrato il banco ferrifero, con uno spessore che variava da pochi decimetri a oltre tre metri, lo scavo del minerale era fatto manualmente, con mazze, scalpelli e picconi. Le mine venivano usate solo di rado e comunque per piccoli spari perché la massa del minerale si estraeva facilmente con il piccone e con la mazza.
I cavatori erano alle dipendenze del Capitano delle Miniere, in genere un geologo assistito da 4 capi galleria.
Dopo la sua estrazione il minerale di Pazzano veniva spedito alle Ferriere di Mongiana e Ferdinandea appena cernito e senza torrefazione, a dorso di muli e asini.
La Ghisa e il Ferro:
In origine si procedeva con la preliminare operazione di lavaggio e di torrefazione del minerale estratto, procedure di seguito abbandonate soprattutto perché la qualità estratta era di solito la sfranta.
La varietà compatta, invece, veniva preriscaldata in una fornace a riverbero e all’uscita i minerali roventi erano resi friabili mediante getti d’acqua fredda.
La messa in marcia dell’altoforno durava circa 3 settimane, tempo necessario a riscaldare le pareti, e il suo caricamento era di tipo meccanico: i minerali, il fondente e i combustibili erano stipati in una cassa e sollevati da una gru mobile e scaricati nell’altoforno.
Il processo di fusione iniziava a piccole cariche, aumentate progressivamente con porzioni differenti in rapporto al tipo di ghisa che si voleva ottenere, con una produzione giornaliera per singolo altoforno che variava tra i 40 e i 60 quintali.
In inverno l’aria d’alimentazione proviene dalle trombe idroeoliche, in estate, quando le acque scemavano si utilizzava una macchina a vapore detta il “Ventilatore”.
Il personale addetto agli altiforni era diviso in squadre e ogni squadra era composta da un capo fonditore, una guarda forno, due guarda fuochi, un fonditore di prima classe, uno di seconda, cinque caricatori e tre pestatori. Quando i forni lavorano in coppia alla squadra si aggiungono altri due fonditori e ulteriori caricatori e pestatori.
La ghisa da spedire a Napoli si gettava in pani, quella destinata alla raffinazione locale era gettata in piccole masse frantumate poi a colpi di maglio.
A seguito dall’alluvione del 1855 le Ferriere dell’Allaro vennero spazzate via, si costruirono quindi, nei pressi della Fonderia, un grande forno a manica e un forno a cupola detto anche Cubilot dove l’operazione di carica si eseguiva frantumando la ghisa a colpi di maglio, poi sollevata alla piattaforma di servizio da una gru e scaricata a strati alterni misti a carbone.
Rispetto alla produzione di ghisa per quella del ferro il consumo di carbone aumenta. Si usava in genere il legno di faggio per il ferro comune mentre per la produzione delle canne di fucile si impiegava quello di castagno o erica.
A Mongiana si producevano cannoni, proiettili, cerchioni, guarnimenti di affusti e altro ancora mentre dall’eccedenza si ricavavano barre o verghe nei locali laminatoi e maglietti con una produzione che variava in funzione delle esigenze e alle richieste del mercato.
Ogni settore aveva il suo capo che era il solo responsabile della qualità della produzione, comanda all’interno della propria squadra senza ingerenze militari e gli uomini da impiegare venivano scelti personalmente da lui in seguito ad un esame attitudinale.
Per tutti i lavoratori di fonderia la durata della giornata lavorativa era stabilita in 10 ore giornaliere (un traguardo che sarà raggiunto agli addetti della siderurgia italiana dopo il 1910).
Presso le ferriere di Mongiana venivano prodotti manufatti soprattutto a uso bellico, ma anche per uso civile.
In ambito civile si producevano busti per monumenti, tubi, campane, ruote di ferro, elementi di macchine, argani, pesi, bracieri, mortai, zappe, chiavi, ma anche pezzi speciali di grandi dimensioni e di forme complesse come bulloni, maglie, catene, componenti per i primi ponti sospesi, rotaie per tratte ferroviarie, ecc.
In ambito militare si producevano proiettili, cannoni, mortai, granate, baionette, sciabole, else, carabine.
Era attivo anche un reparto di progettazione nel quale presero vita fucili di precisione, prototipi di cannoni navali binati, cartucce a percussione centrale, ecc.
Un esempio di produzione: I proiettili
All’epoca di Massimiliano Conty (Direttore del complesso metallurgico dal 1791 al 1799) per costruire una palla perfetta ed essere ammessa, cioè approvata dall’Artiglieria, occorreva il lavoro congiunto di ben 4 ferrazzuoli.
La tecnica era stabilita dal Regolamento di Fonderia emanato nel 1792 valido in tutte le ferriere del Regno con l’impiego del metodo detto “getto di conchiglia”: si devono scaldare due barre di ferro insieme affinché l’una si arroventisca, ne mentre che l’altra si lavora, e così si perda tempo. Uno dei forgiari fa la palla, due battono, il quarto soffia e ha cura del fuoco. Quando è caldo il ferro il Forgiaro lo piglia colla mano sinistra, ne presenta l’estremità sulla parte inferiore dello stampo, e colla dritta soprapone lo stampo superiore, gira continuamente il ferro nella sua mano, nel mentre che gli altri battono, sin tanto che veggasi la palla attondita, allora lascia lo stampo, presenta la lunetta a caldo alla palla, la quale non deve ancora passarvi; se è soverchio grossa, la ribatte di nuovo nello stampo, ed arrivata al punto che la vuole situa la coda della medesima sul tagliatore verticale, abbandona lo stampo, piglia il tagliatore a manico, col quale distacca la palla per mezzo di un colpo dato da uno dei forgiatori […] essendo divisa la palla dalla sbarra di ferro, il Forgiaro la piglia con una molletta e la rimette nel suo incavo dove finisce di tondeggiarla, facendola ribattere a piccoli ma spessissimi colpi e girandola in tutti i sensi. Così perfezionata deve passare la palla nel calibro a caldo e non in quella a freddo (Regolamento di Fonderia, anno 1792).
I calibri erano di 4 tipi misurati in pollici, linee e punti. Si partiva dal ferro sbarra tirato a maglietto in otto facce e si fanno le palle dentro stampi formati da due pezzi, quello di sotto piatto, è mantenuto sull’incudine per mezzo di una coda quadra e puntata che si intromette in uno dei buchi comunemente praticati nell’incudine, quello di sopra è fatto a norma di martello. Per costruire la parte inferiore dello stampo si principia a formare la coda all’estremità di una barra di ferro […] si taglia la barra secondo la sua grossezza […] si salda in questa un pezzo d’acciaro […[ nel mentre il pezzo destinato a formare l’incavo sta rovente si comincia detto incavo per mezzo di un punteruolo acciarato e temperato e tondo […] s’ingrandisce poi per mezzo di una palla fredda del calibro di cui si vuole lo stampo (Regolamento di Fonderia, anno 1792).
Il metodo detto “getto di conchiglia” fu sostituito nel 1810 dal capitano Ribas con quello “staffaggio in sabbia”. Se quello precedente rendeva il proiettile una sorta di scultura il nuovo, meno macchinoso e più veloce, consentiva la produzione in serie con il colaggio del ferro fuso in appositi stampi.
L’uso degli stampi rappresentò una tappa fondamentale nel processo di produzione […] ridotto allo stato di acqua (ferro liquido) si prende colle cocchiaja di ferro dolce guarnite d’argilla e si cola nelle forme che a bella posta si sono formate avanti la fornace, secondo quello che si vuole ottenere […] le forme dei proiettili sono alcune staffe di legno in due metà che immettendone della terra si fa il vacuo del proiettile con un lobo di bronzo del calibro che si domanda, il quale dopo aver lasciato la sua impressione nella arena stessa con strumento di ferro, chiamato bocchino, per mezzo del quale si intromette il ferro liquido.
Il sistema a colaggio riduceva i tempi di lavoro e garantiva calibri costanti, inoltre il colaggio consentirà in seguito di tentare produzioni più complesse e di mole sempre maggiore, le colonne della Fabbrica d’Armi ne sono un valido esempio.
E ancora, nel campo della produzione di artiglierie il sistema a colata, unito all’uso delle barene d’alesaggio, consente di standardizzare i calibri così, dal 1837, iniziò la produzione di grossi calibri.